martedì 29 luglio 2014

Donne combattenti, le brigantesse

Michelina De Cesare in una foto d'epoca
La loro storia, ramo frondoso ed oscuro dell'albero della storia italiana, è ancora oggi controversa: indomite combattenti per la libertà secondo alcuni, spietate criminali pronte a tutto per altri, le brigantesse infuocano e dividono gli animi.

Quando Garibaldi, tra il 1859 e il 1861, condusse campagne militari nel sud della Penisola con l'obiettivo di unificare l'Italia venne osannato come eroe dai liberali, ma quella che per loro era una "nobile impresa" era, al contempo, per i conservatori e gran parte della Chiesa, "un atto di pirateria" commesso e reiterato da "un'orda di briganti". Al di là delle interpretazioni intellettuali appare verosimile che non tutti gli uomini al seguito di Garibaldi fossero degli stinchi di santo, è probabile che alcuni abbiano vessato la popolazione al loro passaggio ed è il desiderio di riprendersi la propria vita e la propria dignità, più che non una motivazione politico-filosofica, ad aver spinto molti uomini del sud verso la ribellione ed il brigantaggio. E con loro, per amore o per vendetta, si nascosero nei boschi e si votarono alla battaglia anche numerose donne.

La bella Michelina De Cesare è forse una delle più famose brigantesse: nata nel 1841 nell'odierna provincia di Caserta, allora provincia di Terra di Lavoro, Michelina ebbe un'infanzia tutt'altro che spensierata, dedicandosi ben presto insieme al fratello a piccoli furti; sposatasi nel 1861, rimase vedova l'anno successivo e sempre nel 1862 conobbe Francesco Guerra, ex soldato del Regno Borbonico che rifiutò di unirsi alle armate del nuovo Stato e si diede alla macchia. Michelina e Francesco divennero amanti - secondo alcune carte processuali del 1865 si sposarono in segreto - e la giovane fu in tutto e per tutto compagna del suo uomo, affiancandolo nelle missioni di guerriglia e conquistando sul campo un ruolo di spicco all'interno dei briganti; di questo si ha testimonianza negli atti d'interrogatorio del brigante Domenico Compagnone, che, catturato, dichiarò: "La banda è composta in tutto da 21 individui, comprese le due donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle quali quella di Guerra è anch'essa armata di fucile a due colpi e di pistola. Della banda, solo i capi sono armati di fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi suddetti che tengono i revolvers". Le armi portate da Michelina testimoniano dunque il ruolo di spicco da lei conquistato nella banda, banda che venne tradita e cadde in un agguato, venendo catturata nel 1868 dal generale Emilio Pallavicini di Priola.
La brigantessa Maria Lucia Dinella
Violentata e malmenata, Michelina vene uccisa come tutti gli altri briganti catturati e, denudata, venne esposta con gli altri cadaveri nella piazza di Mignano Monte Lungo (Caserta), a monito della popolazione locale. Chi non assistette alla macabra manifestazione potè comunque "essere ammonito" dall'immagine, scattata da un fotografo al servizio della propaganda sabauda, che la ritrae morta, con viso e corpo tumefatti.

E' una storia d'amore e di vendetta, invece, quella di Elisabetta Blasucci, una storia che si fonde nella leggenda sin dalla sua nascita che, da alcuni, viene collocata a Ruvo di Puglia e da altri a San Severo. Elisabetta era una giovane donna contadina, sposa innamorata del suo uomo con il quale condivideva le fatiche dei campi e le piccole gioie del quotidiano, e quando il soldato piemontese Alfredo Cosso le ammazzò il marito per futili motivi di gioco lei non ebbe dubbi: quell'uomo doveva morire. Lo uccise, quell'invasore che le aveva rubato l'amore, e si trovò a cercare di ricostruirsi una vita nei boschi, dove si unì alla banda dei briganti, diventando ben presto fidata consigliera del capo. Per alcuni il tempo lenì le ferite, per altri la comune lotta divampò in passione, ma tutti concordano nell'affermare che la vendicativa Elisabetta e l'indomito Giovanni Libertone divennero amanti, uniti nella vita e votati alla morte in battaglia.

Vicenda di ben altro genere è quella di Filomena Pennacchio, altra brigantessa pugliese: sposata giovanissima ad un uomo geloso e violento di Foggia, la ragazza un giorno si ribellò alle percosse ed uccise il marito, conficcandogli uno spillone d'argento in gola. Fuggita per evitare l'arresto, Filomena si unì alla banda di Francesco Schiavone, diventandone ben presto l'amante ed affiancandolo nella lotta armata contro l'esercito ed i simpatizzanti del Regno d'Italia. Donna forte e all'occorrenza spietata, seppe conquistarsi l'ammirazione degli altri briganti distinguendosi in battaglia e partecipando attivamente anche alle azioni più cruente, come quella del 4 luglio 1863 in località Sferracavallo quando assalirono ed uccisero dieci soldati italiani. L'anno successivo Schiavone venne tradito, catturato e condannato a morte per fucilazione; Filomena, incinta e distrutta dal dolore, si arrese e venne condannata a 20 anni di carcere e lavori forzati (poi ridotti a 7).
Non "drude", come venivano definite dai piemontesi in tono spregiativo, donnacce di facili costumi a disposizione dell'intera banda di briganti, ma consigliere dei capi il cui intuito ed acume strategico veniva tenuto in grande considerazione, almeno quanto il loro coraggio nella battaglia.

Per approfondire:

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